LAVORO SUBORDINATO E COMPATIBILITA' CON CARICHE SOCIALI

 

Quando può sussistere un lavoro subordinato secondo l'INPS

 

LINPS, con il messaggio n. 3359/2019 ha fatto un’analisi delle diverse situazioni di compatibilità fra cariche sociali e lo status di lavoratore dipendente ed ha come obiettivo di fare chiarezza riassumendo gli orientamenti applicabili.

 

Il messaggio si basa sui principi espressi dalla Corte di Cassazione con riferimento alla disciplina relativa all’amministratore di società di capitali, «in base alla quale l’incarico per lo svolgimento di un’attività gestoria, come quella dell’amministratore, in una società di capitali non esclude astrattamente la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato (fatte salve alcune eccezioni)».

 

Recenti orientamenti giurisprudenziali

Vengono citate diverse sentenze della Suprema Corte che si uniformano a questo criterio, considerando la carica di presidente non incompatibile con lo status di lavoratore subordinato «poiché anche il presidente di società, al pari di qualsiasi membro del consiglio di amministrazione, può essere soggetto alle direttive, alle decisioni ed al controllo dell’organo collegiale» (tra le altre, Cass. n. 11978/2004, n. 1793/1996 e n. 18414/2013).

L’INPS ritiene, pertanto, che la semplice circostanza che il socio di società di capitali assommi in capo a sé anche l’incarico di amministratore, pur sintomatica della non sussistenza del vincolo di subordinazione, non sia di per sé sufficiente a concludere per la non configurabilità del rapporto di lavoro subordinato, in quanto in tali fattispecie vanno vagliate disgiuntamente, caso per caso, sia la condizione di possessore di parte del capitale sociale sia l’incarico gestorio. Pertanto, una volta stabilita l’astratta possibilità di instaurazione, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, di un autonomo e parallelo diverso rapporto di lavoro subordinato, dovrà accertarsi in concreto l’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico, contraddistinte dai caratteri tipici della subordinazione, mediante la valutazione, caso per caso, della sussistenza delle seguenti condizioni:

·     che il potere deliberativo (come regolato dall’atto costitutivo e dallo statuto), diretto a formare la volontà dell’ente, sia affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o a un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale, il quale esplichi un potere esterno;

·     che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione (anche, eventualmente, nella forma attenuata del lavoro dirigenziale) e cioè dell’assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale, all’effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto o degli altri componenti dell’organismo sociale a cui appartiene;

·     che il soggetto svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino e che, pertanto, non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite.

 

Compatibilità con il lavoro subordinato

Ci sono casi in cui l’incompatibilità sussiste sempre, ad esempio quando un’impresa ha un socio unico, altri in cui invece è possibile che un presidente o un socio o un amministratore siano anche dipendenti della stessa società. Vediamo i principali:

Presidente: , poiché anche il presidente di società, al pari di qualsiasi membro del CdA, può essere soggetto alle direttive, alle decisioni e al controllo dell’organo collegiale, anche se gli sia stato conferito il potere di rappresentanza, atteso che tale delega non estende automaticamente allo stesso i diversi poteri deliberativi.

Amministratore unico: No, poiché l’amministratore unico della società è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale, come anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina. In questo caso, l’assenza di una relazione intersoggettiva, suscettibile di una distinzione tra la posizione del lavoratore in qualità di organo direttivo della società e quella del lavoratore come soggetto esecutore delle prestazioni lavorative personali (che, di fatto, dipendono dallo stesso organo direttivo), porta a sancire un principio di non compatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente e la carica sociale.

Amministratore delegato: dipende dalla portata della delega conferita dal CdA (che può essere generale e, come tale, implicante la gestione globale della società o parziale, qualora vengano delegati limitati atti gestori):

- nelle ipotesi in cui l’amministratore sia munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del CdA è esclusa la possibilità di intrattenere un valido rapporto di lavoro subordinato con la società;

- diversamente, l’attribuzione da parte del CdA del solo potere di rappresentanza o di specifiche e limitate deleghe all’amministratore non è ostativo, in linea generale, all’instaurazione di genuini rapporti di lavoro subordinato.

Unico socio: No, perché la concentrazione della proprietà delle azioni nelle mani di una sola persona esclude, nonostante l’esistenza della società come distinto soggetto giuridico, l’effettiva soggezione del socio unico alle direttive di un organo societario. Parimenti, il socio che abbia assunto di fatto nell’ambito della società l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione, tanto da risultare “sovrano” della società stessa, non può assumere contemporaneamente anche la diversa figura di lavoratore subordinato, essendo esclusa la possibilità di ricollegare a una volontà “sociale” distinta la costituzione e gestione del rapporto di lavoro.

 

Pareri della Cassazione sui contributi INPS dei soci di SRL

Durante gli ultimi mesi, la Cassazione ha rilasciato tre sentenze che chiariscono gli obblighi di versamento dei contributi INPS per i soci di Srl. In particolare, si tratta delle sentenze n. 23792/2019, n. 23790/2019 e n. 21540/20192019.

La situazione cui si rivolge il messaggio della Cassazione è quella che attiene il lavoratore autonomo (che, ai fini previdenziali, va inteso come soggetto titolare di partita Iva che svolge attività di impresa), che sia al contempo:

·        iscritto alla gestione previdenziale (artigiani o commercianti) in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria;

·        socio di una o più Srl, nelle quali non svolga attività lavorativa.

Ricordiamo che, in linea di principio, la qualità di socio di una società di capitali non determina – di per sé – alcuna legittima situazione giuridica che consenta al soggetto di prestare la propria opera all’interno della società, se non sulla scorta di particolari rapporti, di collaborazione, di lavoro dipendente, etc..

L’INPS (peraltro senza distinzioni territoriali) ritiene che la risposta al quesito sopra proposto si trovi nel disposto dell’articolo 3-bis, D.L. 384/1992 ove si prevede che “A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’articolo 1, L. 233/1990, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. E, in particolar modo, l’Istituto ritiene che la normativa richiamata distinguerebbe tra imposizione fiscale e imposizione previdenziale, al fine di assicurare un ampio spettro di commisurazione dei contributi previdenziali. Quindi, ove si fa riferimento ai “redditi di impresa” si dovrebbe intendere i redditi per i quali la normativa può richiedere una prestazione pensionistica.

La suprema Corte, per fortuna, analizza le censure dell’Istituto senza lasciarsi ingannare da presunte esigenze di cassa.

Rilevano, infatti, i giudici:

1)      il Legislatore distingue tra gli elementi dai quali discende il sorgere della tutela previdenziale e quelli in relazione ai quali si individua la misura della contribuzione (intesa come base di calcolo). Quindi, tra i primi la prestazione di attività, tra i secondi la titolarità di qualsiasi reddito di impresa;

2)      quando la norma cita i “redditi di impresa” non può che riferirsi a una definizione così come fornita dal Tuir;

3)      la semplice partecipazione ad una Srl non determina certo l’insorgere di un reddito di impresa, casomai si produrranno redditi di capitale al momento di incasso dei dividendi;

4)      ne consegue che, nel caso rappresentato, la base sulla quale commisurare i contributi previdenziali è unicamente la quota di reddito della Srl commerciale all’interno della quale il soggetto presta la propria attività lavorativa, mentre non va considerata in alcun modo l’astratta quota di reddito dell’altra Srl nella quale si detiene unicamente la partecipazione.

 

 

04/10/2019

 

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