Analisi sui mercati finanziari a cura di Pierluigi Gerbino
Docente di Economia - 4° class. al Campionato Italiano di Trading Top Trader 2000
Anno 2008 - Luglio
COMMENTO
Ad inizio giugno avevo parlato di “tempesta perfetta” descrivendo quella che sembrava in arrivo sui mercati finanziari.
Direi che i fatti hanno confermato le previsioni, con quasi tutti i mercati che hanno inanellato un mese consecutivo di ribassi e rivisto i minimi di marzo. Qualcuno li ha addirittura superati, altri li hanno fortemente avvicinati. In questo clima perturbato è da segnalare la cronica debolezza della nostra borsa, che, come succede da tempo, si è distinta per performances particolarmente negative. Il future sull’indice SPMIB ha superato ieri i minimi di marzo ed evidenziato una fase di debolezza ben rappresentata da uno dei più classici indicatori di mercato: il RSI14, Indice di Forza Relativa a 14 periodi.
Tale indicatore ha attraversato la soglia di eccesso di negatività (ipervenduto) il 10 giugno ed è rimasto sotto tale soglia per ben 16 giornate consecutive di borsa, finora. Un periodo di negatività così lungo non si è mai verificato prima.
Molto semplicemente e brevemente, sono venuti al pettine tutti i nodi che a maggio erano stati frettolosamente accantonati e su cui avevo sottolineato la troppa voglia di dimenticare. Il rialzo del petrolio, che non può più lasciare indifferenti gli indici che misurano l’inflazione, mentre alleggerisce le tasche dei consumatori; la preoccupazione delle banche centrali, che si vedono costrette a pensare al rialzo dei tassi per contrastare le pressioni inflazionistiche; la crisi finanziaria, che continua a mordere, provocando sempre nuove svalutazioni e mette in seria difficoltà alcune grosse banche mondiali: Citigroup, Merrill Lynch, Lehman Brothers, Morgan Stanley, UBS. Può darsi che da questo gruppo esca la pretendente al prossimo salvataggio, dopo quello ormai famoso di Bear Stearns, attuato a marzo. Ma l’elenco dei problemi non è finito: occorre aggiungere l’avvitamento, lungo e penoso, del settore immobiliare USA, il cui crollo non vede soste e fa proseliti anche in Gran Bretagna e Spagna.
Una serie di negatività così lunga ed importante non poteva essere ulteriormente ignorata. La crisi di nervi degli investitori è pertanto motivata e probabilmente vedrà in estate ulteriori manifestazioni.
Però quando è troppo, è troppo.
Credo che i tempi siano maturi per un rimbalzo, anche abbastanza cospicuo. Gli eccessi ribassisti hanno raggiunto livelli difficilmente comprimibili e cominciano a manifestarsi divergenze rialziste che dovrebbero portare un po’ di quiete dopo la tempesta di giugno. Direi che potremmo ipotizzare un ritorno in area 1.350-1.370 per l’indice SP500 (un recupero di quasi il 10% dai minimi di ieri, che non è affatto poco). Il nostro future ha spazio per rimbalzare fino ad un livello compreso tra 31.400 e 32.000 (qui il recupero sarebbe intorno al 15%).
Tutto ciò scaricherebbe gli oscillatori e permetterebbe nuovamente agli eterni ottimisti di ripetere il ritornello che il peggio “questa volta” è veramente passato. Poi dovrebbe tornare in agosto un’altra mazzata a concludere il ciclo ribassista di medio periodo, e vedremo dove questa ci porterà. Probabilmente di nuovo ai livelli attuali se non oltre.
Ci attende quindi un’estate “emozionante”. Ma intanto godiamoci la quiete dopo la tempesta. Anche se non si odono ancora “augelli far festa”.
in queste settimane si è passato il tempo ad esultare per lo scampato pericolo dalla recessione USA, nel mondo si sta imponendo un pericolo altrettanto insidioso per i mercati finanziari, oltre che per le tasche dei cittadini. Il mostro degli anni ’70, quello che riuscì a piegare le economie per anni in un vortice di bassa o inesistente crescita accompagnata da erosione della ricchezza dei cittadini e dele risparmio, sembra nuovamente far capolino dietro l’angolo. Torna il fantasma della stagflazione.
Le schiere degli ottimisti prezzolati (analisti delle banche d’affari, promotori piazzisti di fondi, governi ed autorità monetarie) che per dovere istituzionale non possono che prevedere la fine delle difficoltà e la luce in fondo al tunnel, altrimenti non campano, stanno ancora esultando per il dato sul PIL USA del 1° trimestre, che pochi giorni fa è stato addirittura rivisto dal +0,6% al +0,9% su base annua e sembra dimostrare che forse questa volta gli USA eviteranno la recessione.
Ricordo che tecnicamente si parla di recessione se vengono comunicati due trimestri consecutivi con variazione negativa del PIL. Siccome tutti hanno fiducia negli effetti taumaturgici dell’aiutino che Bush ha inviato in questi giorni agli americani (160 miliardi di dollari di rimborsi fiscali salva-mutui, non bruscolini), si pensa che avremo in negativo soltanto il 2° trimestre, che è arrivato ai 2/3 del suo percorso accompagnato da dati macro ancora brutti. Poi la corsa a spendere il regalo di fine mandato del Presidente uscente consentirà di rianimare i consumi e far riprendere al PIL la via della crescita nel terzo e soprattutto nel quarto trimestre. Tutto è bene quel che finisce bene: torniamo a comprare.
Sull’onda di questa convinzione i mercati hanno esteso il loro rimbalzo fino al 19 maggio e sono arrivati a recuperare buona parte del calo partito dai massimi del novembre 2007 e durato 5 mesi. SP500, il più rappresentativo indice del mercato USA ha realizzato un recupero proprio di circa il 60% della precedente discesa ed è arrivato molto vicino al punto oltre il quale gli analisti grafici avrebbero dovuto cambiare idea e prendere in forte considerazione l’eventualità che quella in corso fosse una sorta di riedizione del 1998. Allora i mercati barcollarono, a causa della crisi russa e del fallimento del grande hedge fund LTCM (quello che si vantava di essere gestito con la consulenza di tre Premi Nobel per l’economia), ma l’economia evitò la recessione ed i mercati ripartirono per l’euforico biennio ’99-2000 e nuovi sfavillanti massimi, trascinati dalla new economy.
Apparentemente una situazione simile a quella odierna. Graficamente, se SP500 riuscirà a riportarsi oltre il massimo del 19 maggio a 1.440 e supererà anche quota 1.455, che equivale al 61,8% di ritracciamento del calo dai massimi di novembre, fornirà un segnale di forza che avrà come primo obiettivo il ritorno ai massimi assoluti (1.576) e magari oltre, se l’euforia tornerà a farla da padrona.
Le analogie con il 1998 però, a mio parere, finiscono qui, per cui mi sbilancio ad affermare che, se l’andamento dell’economia significa ancora qualcosa per i mercati, lo scenario grafico ottimista ha poche probabilità di avverarsi, checchè ne dicano i seminatori di entusiasmo che hanno ricominciato ad occupare la scena.
Infatti da un lato guardo con molto scetticismo il dato positivo del PIL americano, ottenuto grazie alle esportazioni favorite dal mini dollaro (di cui tutti gli ottimisti prevedono la ripresa: se sarà così questo sostegno in futuro verrà a mancare), alle scorte di magazzino invendute (che sono un segno di enorme debolezza della domanda e non di forza della produzione, e dovranno essere riassorbite con minore PIL futuro), al trucchetto contabile di deflazionare i consumi con un deflatore che riflette l’inflazione “core” (al netto degli aumenti di prezzo di energia ed alimentari), che è il 2,6%, anzichè l’inflazione globale, mediamente intorno al 4% nel trimestre. Questo trucchetto ha consentito quasi l’1% di contributo fasullo alla crescita del PIL. Senza questi trucchetti il PIL sarebbe sceso, e non salito al ritmo di +0,9% annuo.
Dall’altro lato guardo con grande preoccupazione alla continua iniezione di liquidità che la Federal Reserve sta inutilmente pompando nel sistema bancario nel tentativo, per ora vano, di far arrivare credito al sistema economico. Le banche continuano ad irrigidire le condizioni per la concessione di prestiti (fanno fatica addirittura a prestarsi i soldi tra loro) e non trasmettono all’economia lo stimolo espansivo provocato dal calo degli interessi ufficiali al 2%. In tali condizioni pompare liquidità serve solo ad alimentare l’inflazione.
Non è perciò un caso che la peggiore delle notizie ultimamente giunte è proprio il ritorno prepotente dell’inflazione, come conseguenza dell’esagerato aumento dei prezzi di petrolio ed alimentari. Guarda caso, proprio di quei generi che nel calcolo dell’inflazione “core”, la prediletta da Bernanke e soci, non vengono conteggiati. Perciò abbiamo la paradossale situazione che la Fed, pur destando preoccupazioni, al momento l’inflazione è ancora contenuta, mentre tutti gli altri americani, che dovendo purtroppo mangiare, scaldarsi e viaggiare, devono acquistare anche i beni “non core”, percepiscono una forte erosione del potere d’acquisto. Una evidenza che è ben testimoniata dal continuo calo della fiducia dei consumatori americani, elaborata dal Conference Board, che nell’ultima rilevazione del 27 maggio ha fotografato un dato globale a 57,2, il minimo dall’ottobre 1992. E’ molto interessante però andare a scavare nelle varie componenti dell’indice. Si nota che sia la valutazione della situazione corrente che le aspettative future sono in calo. Però le aspettative si sono ridotte ad un livello di fiducia che per ritrovarlo così basso occorre andare indietro fino al 1973 (guarda caso quando ci fu la stagflazione). Ed è proprio la componente delle attese sui prezzi futuri a fornire il maggior contributo di sfiducia alle aspettative. Negli USA il tasso globale è ora misurato al 3,9%. Gli americani si attendono però mediamente per il prossimo anno una inflazione in salita fino al 7,7%, quando solo qualche mese fa attendevano poco più del 5%. Il calo di fiducia si motiva perciò con questa percezione dello dello shock inflazionistico addirittura in accentuazione, mentre il contributo del rimborso fiscale, positivo per le loro tasche, viene visto come transitorio.
A questo proposito, anche per calmierare un po’ l’ottimismo di maniera di chi pensa che regalando 160 miliardi una tantum si possa far ripartire l’economia USA, è molto illuminante il risultato di un sondaggio, pubblicato da Mish’s Global Economic Trend Analysis, su come gli americani pensano di utilizzare la somma che Bush ha regalato: ebbene, il 45% la userà per pagare debiti e il 18% la risparmierà. L’impatto positivo sui consumi si riduce così a poco più di un terzo di tale somma. Un po’ pochino per affidare solo ad esso l’arduo compito di far ripartire l’allegra locomotiva del consumismo yankee.
Faccio notare che il diffondersi nel vasto pubblico di attese inflazionistiche, magari addirittura esagerate (personalmente condivido il timore di un aumento dell’inflazione in USA, ma non riesco a vederla fino al 7,7% tra un anno, nemmeno dando fondo a tutta la mia capacità di pessimismo, che alcuni lettori mi attribuiscono molto spiccata), consente all’inflazione di alimentarsi, poiché portando alla rassegnazione chi la subisce, ne abbassa le difese, mentre spinge chi aumenta i prezzi a farlo sempre più, dato che il sistema, prevedendoli, è portato ad accettare senza lamentarsi molto aumenti dei prezzi anche non troppo giustificati.
Dobbiamo prendere atto che la lunga epopea della stabilità dei prezzi è giunta al termine.
Pressioni verso una rinascita dell’inflazione globale si diffondono uniformemente già ora in tutto il mondo. Anche in Europa ci avviciniamo al 4%, la Cina è ormai praticamene al 10%, l’India registra oltre l’8%, la Russia è al 14%. L’unico paradiso rimasto contro l’erosione dei prezzi è in Giappone, a costo di una stagnazione ormai decennale, ma anche lì qualcosa comincia a muoversi.
L’evento non sarà senza conseguenze. E saranno conseguenze di lungo periodo.
Per cui avremo occasione di tornarci chissà ancora quante volte.
Per ora godiamoci le partite degli imminenti Europei di calcio e l’altrettanto interessante match tra rialzisti e ribassisti, che si sta giocando sui mercati finanziari. Oltre 1.455 di SP500 vinceranno i rialzisti e si tornerà ai massimi. Sotto 1.370 avranno la meglio i ribassisti e si tornerà probabilmete a ritestare i minimi di marzo. All’interno di questi due livelli è pareggio e si potrebbe andare ai supplementari per alcune settimane.
FOCUS MACROECONOMICO
PETROLIO: … E SE FINISSE COME AL NASDAQ ?
Non avevo mai sentito parlare di petrolio in questi ultimi anni come nelle ultime settimane. Nemmeno a fine febbraio, quando superò la mitica soglia dei 100 dollari al barile, delineata come un obiettivo oltre il quale si sarebbero avute conseguenze drammatiche.
In effetti le conseguenze drammatiche cominciano ad essere piuttosto evidenti, ora che nel giro di pochi mesi si è arrivati a superare 140 dollari e “quota 100” più che un obiettivo rialzista sembra essere diventata l’illusione di chi spera che scenda.
Due numeri, ma ancor più il grafico (che si può vedere al seguente link: http://www.borsaprof.it/analisi_grafiche.asp?id=28 ) aiutano a rendersi conto di quanto esplosivo sia il rialzo di questa materia prima di base.
A chi se lo fosse dimenticato ricordo che ad inizio 2002, cioè solo 6 anni e mezzo orsono, la quotazione dell’oro nero era inferiore a 18 dollari il barile. Per cui in 6 anni il rialzo è stato del 780% circa. Nei primi due anni di questo movimento l’incremento medio annuo è stato di 7,5 dollari l’anno. Nel biennio 2004-2005 siamo passati a 15 dollari di aumento l’anno. Nel 2006 abbiamo avuto l’unica significativa correzione con un calo medio di 15 dollari. Ma nel 2007 la crescita è esplosa con un incremento medio di 45 dollari e in questi primi 6 mesi del 2008 stiamo toccando un ritmo addirittura di 55 dollari di incremento medio semestrale. Un andamento iperbolico, ben rappresentato dall’inclinazione crescente delle 3 trendlines che nel grafico identificano il movimento ascendente di lungo, di medio e di breve periodo.
Le autorità politiche stanno assumendo toni sempre più allarmati, dopo averne discusso addirittura nel G8, e questo significa che la salita del petrolio ha raggiunto un certo livello di drammaticità.
Le domande che tutti si fanno sono, nell’ordine: Di chi è la colpa? (fa sempre piacere poter trovare un capro espiatorio, specie se serve a lavare la coscienza di ciascuno di noi); Che conseguenze può avere sulle nostre economie?; Quando si fermerà?.
Proviamo a rispondere, secondo il mio punto di vista.
DI CHI È LA COLPA?
Ci sono due scuole di pensiero: quelli che danno la colpa a motivi strutturali e non modificabili si contrappongono a quelli che dicono che è tutta colpa della speculazione.
Credo che abbiano ragione entrambi.
Un movimento di prezzo come quello che ho descritto, che dura da 6 anni, non può essere motivato solo da speculazione. La speculazione cavalca i trend, e pertanto li esalta e li amplifica. Ma non li crea e soprattutto non li spinge per anni.
Il motivo strutturale dell’aumento dei prezzi sta nel blocco dell’offerta e nel decollo della domanda. L’offerta non sta salendo in modo significativo in questi ultimi anni. E’ parecchio tempo che non si scoprono più grossi giacimenti e anche gli investimenti per la ricerca non si fanno più da anni. Si cominciano a sfruttare fonti di produzione più costose (le sabbie del Congo e dell’Alaska), ma non c’è dubbio che il picco di Hubbert sia pressochè raggiunto. Si chiama così il punto in cui la produzione di petrolio raggiunge il suo massimo. Oltre quel picco le nuove scoperte non riescono a compensare l’esaurimento delle riserve più vecchie. Per alcuni esperti il picco è già stato raggiunto nel 2005, per altri sarà raggiunto entro il 2015, mentre altri fanno notare che l’aumento dei prezzi stimola nuove ricerche (Bush ha chiesto di trivellare zone che finora erano vietate) che potrebbero spostare più in là la data del picco.
Sta di fatto comunque che la disponibilità di petrolio non aumenta, anche perché molti produttori stanno riducendo la quantità esportata perché utilizzano quote sempre maggiori della loro produzione per soddisfare la crescente domanda interna. Oggi sono immessi sul mercato sul mercato 84 milioni di barili al giorno.
Quel che invece aumenta spasmodicamente è la domanda, trascinata dalla fame di energia dei paesi emergenti, con la Cina in testa, e dall’incapacità di diversificare rapidamente i consumi da parte dei paesi ricchi. Europa ed USA consumano circa il 50% del petrolio esistente, ma l’incremento di domanda proviene ora per il 60% dai paesi emergenti e solo per il 20% da Europa ed USA. La situazione è destinata a peggiorare, poiché il consumo della Cina, che ora ammonta a poco più di 7 milioni di barili al giorno, sta aumentando a tassi di oltre il 7% l’anno. A questo ritmo nel 2020 la Cina consumerebbe 20 milioni di barili, come gli USA.
E’ quindi evidente che il petrolio è destinato a salire. D’altra parte gli stessi produttori hanno tutto l’interesse a lucrare sull’aumento del prezzo, più che sull’aumento di produzione, almeno fino a quando non intravvederanno significativi cambiamenti nelle fonti di approvvigionamento da parte dei consumatori.
Per maggiori informazioni e per approfondire il servizio è possibile accedere all'indirizzo www.borsaprof.it o contattare la casella di posta: gigiger@borsaprof.it
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